giovedì 21 giugno 2012

INTERVENTO DI LEONARDO GUARNOTTA - "AFFINCHE' MAI NESSUNO RESTI SOLO" 20 GIUGNO 2012


Desidero, anzitutto, rivolgere il mio commosso pensiero e la mia solidarietà alle vittime del vile proditorio attentato di Brindisi e alle loro famiglie così tragicamente colpite, violate, profanate nei loro più cari affetti da un atto di barbarie tanto più esecrabile perché commesso ai danni di inermi giovani studentesse.
Qualunque sia stata la matrice dell’attentato, terroristica, eversiva, mafiosa od opera isolata di un psicopatico, l’auspicio è che i responsabili o il responsabile siano o sia presto assicurati alla giustizia.
Il tema dell’odierno incontro consiste nel fare il bilancio, in termini di impegno nella lotta alla mafia e di prospettive future, dei venti anni trascorsi dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, e ciò al fine di constatare se qualcosa è cambiato nella società civile riguardo al modo di approcciarsi al fenomeno mafioso.
In questo ventennio la lotta alla mafia è stata caratterizzata da alterne vicende contrassegnate dagli attentati dinamitardi di Roma, Firenze e Milano, posti in essere dal vertice mafioso ma anche gli arresti di latitanti del calibro di Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, di Bernardo Provenzano, ritenuto il capo indiscusso di “cosa nostra”, tratto in arresto l’11 aprile 2006 dopo quasi 43 anni di latitanza, grazie ad un accurato, estenuante e sofisticato lavoro di intelligence e al diuturno e commendevole impegno profuso da un manipolo di poliziotti della Questura di Palermo, altamente qualificati e specializzati, coordinato da magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Palermo.
La cattura di questi “uomini d’onore” al vertice di “cosa nostra” e il continuo lavoro di bonifica del territorio dalla soffocante imposizione del “pizzo”, cioè del pagamento di somme di danaro da parte di commercianti, imprenditori e professionisti ai mafiosi, non devono far ritenere che la lotta a “cosa nostra” stia finalmente per essere vinta o, addirittura, sia stata vinta.
Le indagini condotte dalla magistratura e dagli organi inquirenti e le sentenze emesse da Tribunali, Corti di Appello e di Cassazione nell’ultimo ventennio hanno evidenziato a chiare lettere come la mafia sia non solo una associazione criminale e, in quanto tale costituisca un problema di sicurezza e di ordine pubblico, ma sia un fenomeno molto più complesso perché caratterizzato da un fittissimo intreccio di rapporti con la società civile e con diversi pezzi degli apparati istituzionali.
Con la ineluttabile conseguenza che il reticolo di relazioni e la trama di alleanze, connivenze, contiguità e collusioni, sono pericolosi e nefandi fattori di inquinamento della politica, dell’economia e della finanza, in altri termini dell’ordinato sviluppo di un sistema democratico.
Per dirla con le stesse parole di Giovanni FALCONE : “la mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Essa vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società.
Questo è il terreno di cultura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette e indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione”.
E assolutamente necessario ed imprescindibile che si radichi definitivamente nella società civile la convinzione che mafiosi non sono soltanto i Riina, i Provenzano, i Bagarella e tanti altri famigerati sodali di “cosa nostra” o i piccoli mafiosi che impongono il “pizzo” a piccoli esercenti attività commerciali, ma che soggetti collusi con la mafia sono a capo di istituzioni pubbliche, siedono in parlamento, dirigono imprese, fanno parte della borghesia altolocata, compongono organi rappresentativi regionali, provinciali, comunali.
Ed allora, occorre che si faccia strada, definitivamente, la convinzione che la strategia di contrasto della criminalità mafiosa non sarà mai vincente se sarà incentrata soltanto sul terreno investigativo e non anche su quello socio-politico-culturale.
Si, perché la società civile, quella avvertita, quella che rispetta le regole della convivenza, quella che informa la sua condotta alla cultura della legalità, non può non desiderare con tutte le sue forze che venga finalmente conseguita la definitiva liberazione da quelle gramigne infette, da quei bubboni malefici che si chiamano “cosa nostra”, “ndrangheta”, “camorra”, “sacra corona unita”, associazioni per delinquere di tipo mafioso contro le quali non è sufficiente l’azione repressiva delle forze dell’ordine e della magistratura ma è anche e sopratutto necessario l’impegno serio, concreto, costante, diuturno delle componenti sane della società civile, di tutta la società civile, quella che denuncia il pizzo, quella che si costituisce parte civile in processi di mafia, quella che organizza convegni per farsi carico del problema e capire come bisogna comportarsi, perché, è bene che lo si tenga presente una volta per tutte, la mafia non è un fenomeno criminale circoscritto alla Sicilia, ma ha travalicato i confini della Trinacria per espandersi là dove ha trovato terreno fertile, là dove ha potuto contare su reticoli di contiguità e connivenze ma anche di collusioni e complicità; ecco perché non bisogna mai, mai dimenticare che la mafia è una società per azioni criminali con sede illegale a Palermo e con filiali nel resto della Sicilia, in Italia e in alcuni paesi del mondo e che la società civile non si libererà dalla soffocante, non più tollerabile presenza della mafia, antistato nello stato, che inquina il tessuto socio-economico-imprenditoriale, sino a quando sarà auto-indulgente e tollererà facilmente al proprio interno, atteggiamenti paternalistici, clientelari, conformistici, conservatori, illegali e “alegali”; insomma atteggiamenti mafiosi e paramafiosi.
E’ necessario che si faccia strada la convinzione che la cultura della violenza, del privilegio e della sopraffazione debba essere combattuta sia sul versante repressivo, grazie al costante impegno delle forze dell’ordine e della magistratura, sia sul versante preventivo mediante la costante ricerca di un radicale cambiamento culturale che consenta il riconoscimento e l’affermazione di irrinunciabili valori quali la democrazia, la legalità, la solidarietà, la pace e la giustizia.
Ecco perché è indispensabile l’impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità delle relazioni umane, nelle scuole, nelle facoltà universitarie, negli ospedali, negli uffici pubblici, nelle imprese commerciali, negli istituti di credito; nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell’esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al parlamento e nelle altre istituzioni.
Senonchè in mancanza di sanzioni ma, soprattutto in assenza di una auto-regolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso.
E nello stesso contesto temporale, si è registrata una forte contrapposizione tra potere politico e magistratura che, di recente, ha avuto un ulteriore rilancio sia a seguito del riaccendersi delle polemiche su alcune decisioni della magistratura milanese su importanti personaggi politici orbitanti nella maggioranza governativa sia a seguito della presentazione di disegni di legge, anche di rango costituzionale.
Nell’ambito dell’acceso dibattito che ne è scaturito, cui la stampa e le frequenti trasmissioni televisive messe in onda dal servizio pubblico e dai vari network hanno fatto da cassa di risonanza, si è ricorso, da parte anche di politici che ricoprono cariche istituzionali, ad espressioni quali “criminalità giudiziaria”, “magistratura eversiva” o, addirittura, “costituzione sovietica”e si è mossa l’accusa ad alcuni magistrati, definiti “toghe rosse”, di avere tentato in precedenza e di tentare in atto, attraverso l’uso impropriamente e spregiudicatamente politico dello strumento giudiziario (indagini preliminari e sentenze a senso unico), di scalzare la maggioranza governativa dell’epoca per far governare il paese da un’altra coalizione politica.
Come è possibile non indignarsi, non provare una profonda ribellione quando, in questi ultimi tempi, da parte del rappresentante di un potere dello Stato i magistrati sono stati, di volta in volta, definiti l’anomalia del paese, la metastasi del paese, i tribunali vengono tacciati di essere plotoni di esecuzione, e si manifesta pubblicamente la propria solidarietà a chi fa affiggere manifesti che omologano i P.M. della procura di Milano alle Brigate Rosse, al culmine di un attacco inusitato alla magistratura ed in piena delegittimazione della funzione giurisdizionale.
In questi ultimi anni è sembrato che il “problema giustizia”, da risolvere urgentemente, fosse soltanto quello che nasceva dal fatto che, in alcuni processi penali, è imputato, tra gli altri, l’ex Presidente del Consiglio dei ministri, una delle più alte cariche istituzionali.
Ma così si è dimenticato, forse surrettiziamente, che il vero problema è quello della giustizia di tutti i giorni, quella che interessa i cittadini, che rimane irrisolto perché gli organici degli uffici giudiziari sono inadeguati o incompleti, le risorse mancano o sono obsolete, il personale amministrativo è insufficiente e quello che va in pensione non viene rimpiazzato da ormai molti anni.
Le cronache giudiziarie degli ultimi vent’anni, i processi a carico di importanti uomini delle istituzioni, basti ricordare quelli celebrati a carico di un sette volte primo ministro, nei confronti del governatore della nostra isola e di alti funzionari di Polizia, per limitarci a processi celebrati a Palermo e definiti con sentenze passate in giudicato, sono la cartina di tornasole di una pericolosissima commistione di interessi economici e di potere tra “cosa nostra” e rappresentanti delle istituzioni, grazie alla quale è possibile ai mafiosi infiltrarsi in nuovi settori economici ed imprenditoriali conseguendo in tal modo il controllo sempre più soffocante del territorio.
Altrimenti, come sarebbe stato mai possibile a RIINA e PROVENZANO, capi dei capi quasi analfabeti, impegnarsi anche in attività legali (imprese, appalti e altro) senza la collaborazione di altri soggetti del mondo delle professioni, delle imprese e delle istituzioni?
E l’amara conferma di un potere mafioso in continua espansione è data dall’ultima operazione condotta dalla DDA di Milano in collaborazione con quella di Reggio Calabria che ha consentito di constatare, anche in Lombardia, la presenza di un “fenomeno” mafioso già ben noto agli inquirenti che operano al Sud.
Il rapporto tra mafia e politica è, dunque, un tema divenuto sempre più di grande attualità nell’ultimo ventennio ed è indubbiamente uno degli aspetti più inquietanti e controversi del fenomeno mafioso e della storia dei partiti e delle istituzioni della nostra nazione.
Il motivo di tanto interesse risiede nella consapevolezza che oscure trame destabilizzanti non sono state ancora disvelate, molti nodi non sono stati ancora sciolti, di alcuni accadimenti non è stato tutt’ora possibile risalire alla loro genesi, su inquietanti episodi non è stato ancora possibile fare luce del tutto.
Basti pensare alle stragi del 1992 e del 1993, alla c.d. trattativa tra uomini delle Istituzioni e rappresentanti di “cosa nostra”, alla quale si sarebbe fermamente opposto Paolo BORSELLINO, secondo recenti ricostruzioni investigative, al c.d. “papello” con il quale, in cambio della rinuncia alla strategia stragista posta in essere da “cosa nostra”, si avanzava, tra le altre, la richiesta dell’abolizione del carcere duro, previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario.
A riguardo, nelle motivazioni della sentenza del 5 ottobre 2011, con la quale la Corte di Assise di Firenze ha condannato all’ergastolo Francesco TAGLIAVIA, uomo d’onore palermitano, perchè ritenuto responsabile anch’egli delle stragi che insanguinarono Roma, Firenze e Milano, si afferma che “una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quanto meno inizialmente, impostata su un do ut des.
L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”
L’obiettivo perseguito dagli uomini delle istituzioni, almeno in una prima fase dei contatti fu, a giudizio della Corte di Assise, quello di “ trovare un terreno di intesa con Cosa Nostra per fare cessare la sequela delle stragi”.
Fermamente avversata da Paolo Borsellino, che avrebbe pagato con la vita la sua scelta di non scendere a patti con la mafia perché avrebbe significato la negazione stessa della battaglia condotta da sempre con Giovanni FALCONE, la trattativa si arenò ma poi riprese, dopo l’arresto di Salvatore Riina, con le stragi di Roma, Milano e Firenze nelle quali persero la vita dieci persone tra le quali due bambine.
Le indagini svolte al fine di risalire ai responsabili occulti di quegli efferati crimini non hanno dato risultati soddisfacenti perché sono rimasti ancora avvolti nel mistero i mandanti esterni dei delitti e delle stragi politico-mafiosi ed è rimasta su di un piano del tutto teorico, almeno sino ad oggi, la responsabilità politica cui faceva riferimento la relazione su mafia e politica della Commissione Antimafia approvata a larga maggioranza, nel 1993, sull’onda emozionale suscitata dalle stragi del 1992 e 1993.
Ma, adesso, su quel fosco periodo della vita democratica del nostro Paese, a distanza di quasi vent’anni, sembra finalmente potersi fare luce grazie alle propalazioni, ritenute attendibili perché riscontrate, del collaboratore di giustizia Gaspare SPATUZZA e allo strenuo ammirevole impegno dei magistrati della DDA di Palermo e Caltanissetta e degli investigatori che li collaborano.
Dunque, è un tema, quello del rapporto mafia-politica, più volte affrontato ma non ancora adeguatamente e completamente sviscerato soprattutto con riferimento ai rapporti di predominio e di subalternità che si sono manifestati nello scenario politico-istituzionale e in relazione al concetto di “contiguità” in ordine al quale nell’ordinanza-sentenza del c.d. “maxi uno”, datata 8 novembre 1985, con riferimento ai delitti “politici”, si legge:
Nella requisitoria del P.M. si fa riferimento alla “contiguità” di determinati ambienti imprenditoriali e politici con Cosa nostra. Ed indubbiamente questa contiguità sussiste anche se è stata scossa, ma non definitivamente superata, dai tanti tragici eventi che hanno posto in luce il vero volto della mafia. Ma qui si parla di omicidi politici, di omicidi cioè in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla gestione della Cosa pubblica: fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti ed inquietanti collegamenti, che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole veramente “voltare pagina”.
Si è discettato se “cosa nostra”, cioè la mafia siciliana, persegua propri fini strategico-politici oppure ricorra a alleanze contingenti od occasionali.
Secondo la relazione su mafia e politica della Commissione antimafia, redatta nel 1993, “cosa nostra” : “ ha una propria strategia politica. L’occupazione e il governo del territorio in concorrenza con le autorità legittime, il possesso di ingenti risorse finanziarie, la disponibilità di un esercito clandestino e ben armato, il programma di espansione illimitata, tutte queste caratteristiche ne fanno una organizzazione che si muove secondo logiche di potere e di convenienza, senza regole che non siano quelle della propria tutela e del proprio sviluppo.
La strategia politica di Cosa nostra non è mutuata da altri, ma è imposta agli altri con la corruzione e con la violenza”
Questa radiografia di “ cosa nostra”, risalente al 1993 ma ancora attualissima, da un senso alla considerazione che la mafia non ha ideologia ma è sensibile al mutare del quadro politico e, conseguentemente, al succedersi dei soggetti politici detentori del potere con i quali, nel corso degli anni, ha stretto saldi patti per conseguire comuni interessi sino alla fine degli anni ottanta quando certe aperture del partito di maggioranza verso il partito comunista e le iniziative di moralizzazione della gestione degli appalti pubblici, sino ad allora, fertile terreno di manovra della mafia, hanno incrinato quel rapporto pattizio.
Per ridurre il partito al governo a più miti consigli, vengono eseguiti gli omicidi di Michele REINA, segretario regionale della D.C. e di Piersanti MATTARELLA, Presidente della Regione, esponente di spicco dello stesso partito.
La “lezione” viene compresa perché quelle “aperture” vengono messe nel dimenticatoio e succedono al potere personaggi dotati di minori doti di iniziative e innovazioni.
Infine, il rapporto pattizio si rompe definitivamente con l’omicidio di Salvo LIMA al quale si muoveva l’addebito di non avere rispettato l’impegno assunto di “ammorbidire” se non paralizzare gli effetti dirompenti per “cosa nostra” della sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 30 gennaio 1992 che aveva giudizialmente e definitivamente accertato l’esistenza di “cosa nostra” ed aveva inflitto pesantissime condanne ai sodali più importanti, riconosciuti colpevoli di una serie sterminata ed impressionante di omicidi.
La spietata esecuzione di Salvo LIMA, esponente di spicco della corrente andreottiana della D.C., ha posto la parola fine, secondo le dichiarazioni di collaboratori mafiosi attendibili, a quel rapporto mafia politica protrattosi per decenni e, conseguentemente, “cosa nostra” si è messa alla ricerca di nuovi referenti, di nuovi interlocutori in un quadro politico profondamente mutato per la presenza di nuove forze politiche sorte dalle ceneri di quelle della prima Repubblica, travolte anche dalle indagini dell’inchiesta “mani pulite” condotta dalla magistratura milanese.
E’ ancora rimasto senza risposta, difettando prove certe al riguardo, l’interrogativo se le stragi del 1992 e 1993 siano state frutto soltanto di un perverso disegno egemonico di “cosa nostra” ed, in particolare dei c.d. “corleonesi”, oppure vi abbia confluito, assicurando la necessaria copertura politica, l’interesse di altri soggetti in cerca di nuovi assetti di potere.
Una cosa è certa.
La reazione dello Stato che, tra l’altro ha inasprito e reso definitivo il trattamento penitenziario per i più pericolosi “uomini d’0nore” sottoposti al regime del 41 bis, e le pesanti condanne inflitte dall’autorità giudiziaria, hanno fatto si che la mafia abbia abbassato il tiro e sia passata dalla stagione della strategia stragista a quella della strategia della “immersione”
Ma, attenzione, non bisogna mai dimenticare che la mafia costituisce un pericolo non solo quando spara, non solo quando uccide, non solo quando compie attentati dinamitardi; è un pericolo gravissimo, non solo per la società siciliana, dal punto di vista politico, sociale, economico ed imprenditoriale.
Non esiste una mafia cattiva, quella che si affida ad una strategia stragista, ed una mafia buona, quella che non compie delitti eclatanti ed attua una strategia di sommersione.
Perché, qualunque sia il suo atteggiamento, la mafia corrompe, inquina, soffoca, infetta le componenti sane del tessuto socio-economico-imprenditoriale e, come un parassita, si nutre delle risorse economiche prodotte chiedendo ed esigendo il pizzo, imponendo partecipazioni di propri adepti negli organi costitutivi delle imprese, pilotando l’assegnazione degli appalti a ditte “amiche”, inserendosi nella assegnazioni dei sub-appalti.
Ed allora, cosa fare, quale strategia adottare per avere definitivamente la meglio sulla mafia che costituisce da decenni un problema, forse il problema endemico della nostra Sicilia.
Certamente, la sola repressione non è sufficiente, anche se ha consentito di raggiungere risultati storici, ma anche la prevenzione, attuata attraverso un’opera di bonifica morale, sociale e culturale, ora mostra la corda ed ha urgente bisogno dell’intensificarsi di un movimento anti-mafia che, agendo a tutto campo, coinvolga le parti sane della società civile facendo loro comprendere che convivere con la mafia non è conveniente (contrariamente a quanto incautamente affermato dall’ex ministro LUNARDI), che la mafia non produce sviluppo, quello sviluppo che possa soddisfare i bisogni di tutti, che la lotta per la democrazia e contro la mafia va sostenuta ad ogni costo facendo ognuno il proprio dovere quotidiano, nonostante le avversità, le incomprensioni, gli ostacoli che si frappongono ogni giorno, perché in questo, nel fare sempre il proprio dovere che risiede la dignità di un essere umano.
In un contesto temporale, quale quello attuale, in cui sembra smarrito il senso profondo dell’interesse generale, del futuro, dello Stato, della giustizia, in queste condizioni si impone un soprassalto di fierezza e di dignità.
E’ necessario, dunque, uno sforzo comune da parte di tutte le componenti della società civile per realizzare un’opera di bonifica morale e sociale che consenta a noi tutti ma soprattutto ai giovani, che sono il nostro futuro, di vivere ed operare in una società migliore di quella in cui ci troviamo e nella quale non saranno costretti a chiedere per favore quello che spetta loro di diritto e in cui potranno andare fieri della loro condizione di cittadini e non di sudditi.
Ma è, anche, indispensabile che il governo ed il parlamento si facciano carico di dotare le forze dell’ordine e la magistratura degli strumenti legislativi, delle risorse umane e materiali indispensabili per svolgere al meglio il loro compito perché, sia chiaro, la lotta alle mafie si combatte in Sicilia, Calabria e Campania ma la guerra si vincerà a Roma.
Il ventesimo anniversario delle stragi di Capaci e Via D’Amelio è l’occasione opportuna perché i momenti di celebrazioni che stiamo vivendo siano anche momenti di riflessione per chiederci se siamo stati, siamo e saremo capaci di raccogliere l’eredità culturale ed istituzionale che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ci hanno lasciato, se siamo stati, siamo e saremo in grado di fare sempre il nostro dovere, come loro ci hanno insegnato con l’esempio quotidiano ed il loro sacrificio.
E’ questo il testamento morale di Giovanni e Paolo.
E tutti noi dobbiamo impegnarci per esserne degni.

Leonardo Guarnotta

Presidente del Tribunale di Palermo

Nessun commento:

Posta un commento