Desidero,
anzitutto, rivolgere il mio commosso pensiero e la mia solidarietà
alle vittime del vile proditorio attentato di Brindisi e alle loro
famiglie così tragicamente colpite, violate, profanate nei loro più
cari affetti da un atto di barbarie tanto più esecrabile perché
commesso ai danni di inermi giovani studentesse.
Qualunque
sia stata la matrice dell’attentato, terroristica, eversiva,
mafiosa od opera isolata di un psicopatico, l’auspicio è che i
responsabili o il responsabile siano o sia presto assicurati alla
giustizia.
Il
tema dell’odierno incontro consiste nel fare il bilancio, in
termini di impegno nella lotta alla mafia e di prospettive future,
dei venti anni trascorsi dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio,
e ciò al fine di constatare se qualcosa è cambiato nella società
civile riguardo al modo di approcciarsi al fenomeno mafioso.
In
questo ventennio la lotta alla mafia è stata caratterizzata da
alterne vicende contrassegnate dagli attentati dinamitardi di Roma,
Firenze e Milano, posti in essere dal vertice mafioso ma anche gli
arresti di latitanti del calibro di Salvatore Riina, Leoluca
Bagarella, di Bernardo Provenzano, ritenuto il capo indiscusso di
“cosa nostra”, tratto in arresto l’11 aprile 2006 dopo quasi 43
anni di latitanza, grazie ad un accurato, estenuante e sofisticato
lavoro di intelligence e al diuturno e commendevole impegno profuso
da un manipolo di poliziotti della Questura di Palermo, altamente
qualificati e specializzati, coordinato da magistrati della Direzione
Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Palermo.
La
cattura di questi “uomini d’onore” al vertice di “cosa
nostra” e il continuo lavoro di bonifica del territorio dalla
soffocante imposizione del “pizzo”, cioè del pagamento di somme
di danaro da parte di commercianti, imprenditori e professionisti ai
mafiosi, non devono far ritenere che la lotta a “cosa nostra”
stia finalmente per essere vinta o, addirittura, sia stata vinta.
Le
indagini condotte dalla magistratura e dagli organi inquirenti e le
sentenze emesse da Tribunali, Corti di Appello e di Cassazione
nell’ultimo ventennio hanno evidenziato a chiare lettere come la
mafia sia non solo una associazione criminale e, in quanto tale
costituisca un problema di sicurezza e di ordine pubblico, ma sia un
fenomeno molto più complesso perché caratterizzato da un fittissimo
intreccio di rapporti con la società civile e con diversi pezzi
degli apparati istituzionali.
Con
la ineluttabile conseguenza che il reticolo di relazioni e la trama
di alleanze, connivenze, contiguità e collusioni, sono pericolosi e
nefandi fattori di inquinamento della politica, dell’economia e
della finanza, in altri termini dell’ordinato sviluppo di un
sistema democratico.
Per
dirla con le stesse parole di Giovanni FALCONE : “la
mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Essa
vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori complici,
informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori,
gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della
società.
Questo
è il terreno di cultura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta
di implicazioni dirette e indirette, consapevoli o no, volontarie o
obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione”.
E
assolutamente necessario ed imprescindibile che si radichi
definitivamente nella società civile la convinzione che mafiosi non
sono soltanto i Riina, i Provenzano, i Bagarella e tanti altri
famigerati sodali di “cosa nostra” o i piccoli mafiosi che
impongono il “pizzo” a piccoli esercenti attività commerciali,
ma che soggetti collusi con la mafia sono a capo di istituzioni
pubbliche, siedono in parlamento, dirigono imprese, fanno parte della
borghesia altolocata, compongono organi rappresentativi regionali,
provinciali, comunali.
Ed
allora, occorre che si faccia strada, definitivamente, la convinzione
che la strategia di contrasto della criminalità mafiosa non sarà
mai vincente se sarà incentrata soltanto sul terreno investigativo e
non anche su quello socio-politico-culturale.
Si,
perché la società civile, quella avvertita, quella che rispetta le
regole della convivenza, quella che informa la sua condotta alla
cultura della legalità, non può non desiderare con tutte le sue
forze che venga finalmente conseguita la definitiva liberazione da
quelle gramigne infette, da quei bubboni malefici che si chiamano
“cosa nostra”, “ndrangheta”, “camorra”, “sacra corona
unita”, associazioni per delinquere di tipo mafioso contro le quali
non è sufficiente l’azione repressiva delle forze dell’ordine e
della magistratura ma è anche e sopratutto necessario l’impegno
serio, concreto, costante, diuturno delle componenti sane della
società civile, di tutta la società civile, quella che denuncia il
pizzo, quella che si costituisce parte civile in processi di mafia,
quella che organizza convegni per farsi carico del problema e capire
come bisogna comportarsi, perché, è bene che lo si tenga presente
una volta per tutte, la mafia non è un fenomeno criminale
circoscritto alla Sicilia, ma ha travalicato i confini della
Trinacria per espandersi là dove ha trovato terreno fertile, là
dove ha potuto contare su reticoli di contiguità e connivenze ma
anche di collusioni e complicità; ecco perché non bisogna mai, mai
dimenticare che la mafia è una società per azioni criminali con
sede illegale a Palermo e con filiali nel resto della Sicilia, in
Italia e in alcuni paesi del mondo e che la società civile non si
libererà dalla soffocante, non più tollerabile presenza della
mafia, antistato nello stato, che inquina il tessuto
socio-economico-imprenditoriale, sino a quando sarà auto-indulgente
e tollererà facilmente al proprio interno, atteggiamenti
paternalistici, clientelari, conformistici, conservatori, illegali e
“alegali”; insomma atteggiamenti mafiosi e paramafiosi.
E’
necessario che si faccia strada la convinzione che la cultura della
violenza, del privilegio e della sopraffazione debba essere
combattuta sia sul versante repressivo, grazie al costante impegno
delle forze dell’ordine e della magistratura, sia sul versante
preventivo mediante la costante ricerca di un radicale cambiamento
culturale che consenta il riconoscimento e l’affermazione di
irrinunciabili valori quali la democrazia, la legalità, la
solidarietà, la pace e la giustizia.
Ecco
perché è indispensabile l’impegno della società civile perché
la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente
permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità delle relazioni
umane, nelle scuole, nelle facoltà universitarie, negli ospedali,
negli uffici pubblici, nelle imprese commerciali, negli istituti di
credito; nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le
scelte elettorali cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di
partito nel selezionare i candidati da inserire nelle liste e quelle
che operano gli elettori nell’esercizio del diritto-dovere di
designare i loro rappresentanti al parlamento e nelle altre
istituzioni.
Senonchè
in mancanza di sanzioni ma, soprattutto in assenza di una
auto-regolamentazione deontologica, la responsabilità politica
rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la
conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo,
politici sotto processo per concorso esterno in associazione per
delinquere di tipo mafioso.
E
nello stesso contesto temporale, si è registrata una forte
contrapposizione tra potere politico e magistratura che, di recente,
ha avuto un ulteriore rilancio sia a seguito del riaccendersi delle
polemiche su alcune decisioni della magistratura milanese su
importanti personaggi politici orbitanti nella maggioranza
governativa sia a seguito della presentazione di disegni di legge,
anche di rango costituzionale.
Nell’ambito
dell’acceso dibattito che ne è scaturito, cui la stampa e le
frequenti trasmissioni televisive messe in onda dal servizio pubblico
e dai vari network hanno fatto da cassa di risonanza, si è ricorso,
da parte anche di politici che ricoprono cariche istituzionali, ad
espressioni quali “criminalità giudiziaria”, “magistratura
eversiva” o, addirittura, “costituzione sovietica”e si è mossa
l’accusa ad alcuni magistrati, definiti “toghe rosse”, di avere
tentato in precedenza e di tentare in atto, attraverso l’uso
impropriamente e spregiudicatamente politico dello strumento
giudiziario (indagini preliminari e sentenze a senso unico), di
scalzare la maggioranza governativa dell’epoca per far governare il
paese da un’altra coalizione politica.
Come
è possibile non indignarsi, non provare una profonda ribellione
quando, in questi ultimi tempi, da parte del rappresentante di un
potere dello Stato i magistrati sono stati, di volta in volta,
definiti l’anomalia del paese, la metastasi del paese, i tribunali
vengono tacciati di essere plotoni di esecuzione, e si manifesta
pubblicamente la propria solidarietà a chi fa affiggere manifesti
che omologano i P.M. della procura di Milano alle Brigate Rosse, al
culmine di un attacco inusitato alla magistratura ed in piena
delegittimazione della funzione giurisdizionale.
In
questi ultimi anni è sembrato che il “problema giustizia”, da
risolvere urgentemente, fosse soltanto quello che nasceva dal fatto
che, in alcuni processi penali, è imputato, tra gli altri, l’ex
Presidente del Consiglio dei ministri, una delle più alte cariche
istituzionali.
Ma
così si è dimenticato, forse surrettiziamente, che il vero problema
è quello della giustizia di tutti i giorni, quella che interessa i
cittadini, che rimane irrisolto perché gli organici degli uffici
giudiziari sono inadeguati o incompleti, le risorse mancano o sono
obsolete, il personale amministrativo è insufficiente e quello che
va in pensione non viene rimpiazzato da ormai molti anni.
Le
cronache giudiziarie degli ultimi vent’anni, i processi a carico di
importanti uomini delle istituzioni, basti ricordare quelli celebrati
a carico di un sette volte primo ministro, nei confronti del
governatore della nostra isola e di alti funzionari di Polizia, per
limitarci a processi celebrati a Palermo e definiti con sentenze
passate in giudicato, sono la cartina di tornasole di una
pericolosissima commistione di interessi economici e di potere tra
“cosa nostra” e rappresentanti delle istituzioni, grazie alla
quale è possibile ai mafiosi infiltrarsi in nuovi settori economici
ed imprenditoriali conseguendo in tal modo il controllo sempre più
soffocante del territorio.
Altrimenti,
come sarebbe stato mai possibile a RIINA e PROVENZANO, capi dei capi
quasi analfabeti, impegnarsi anche in attività legali (imprese,
appalti e altro) senza la collaborazione di altri soggetti del mondo
delle professioni, delle imprese e delle istituzioni?
E
l’amara conferma di un potere mafioso in continua espansione è
data dall’ultima operazione condotta dalla DDA di Milano in
collaborazione con quella di Reggio Calabria che ha consentito di
constatare, anche in Lombardia, la presenza di un “fenomeno”
mafioso già ben noto agli inquirenti che operano al Sud.
Il
rapporto tra mafia e politica è, dunque, un tema divenuto sempre più
di grande attualità nell’ultimo ventennio ed è indubbiamente uno
degli aspetti più inquietanti e controversi del fenomeno mafioso e
della storia dei partiti e delle istituzioni della nostra nazione.
Il
motivo di tanto interesse risiede nella consapevolezza che oscure
trame destabilizzanti non sono state ancora disvelate, molti nodi non
sono stati ancora sciolti, di alcuni accadimenti non è stato
tutt’ora possibile risalire alla loro genesi, su inquietanti
episodi non è stato ancora possibile fare luce del tutto.
Basti
pensare alle stragi del 1992 e del 1993, alla c.d. trattativa tra
uomini delle Istituzioni e rappresentanti di “cosa nostra”, alla
quale si sarebbe fermamente opposto Paolo BORSELLINO, secondo recenti
ricostruzioni investigative, al c.d. “papello” con il quale, in
cambio della rinuncia alla strategia stragista posta in essere da
“cosa nostra”, si avanzava, tra le altre, la richiesta
dell’abolizione del carcere duro, previsto dall’art. 41 bis
dell’ordinamento penitenziario.
A
riguardo, nelle motivazioni della sentenza del 5 ottobre 2011, con la
quale la Corte di Assise di Firenze ha condannato all’ergastolo
Francesco TAGLIAVIA, uomo d’onore palermitano, perchè ritenuto
responsabile anch’egli delle stragi che insanguinarono Roma,
Firenze e Milano, si afferma che “una
trattativa indubbiamente ci fu e venne, quanto meno inizialmente,
impostata su un do ut des.
L’iniziativa
fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di
mafia”
L’obiettivo
perseguito dagli uomini delle istituzioni, almeno in una prima fase
dei contatti fu, a giudizio della Corte di Assise, quello di “
trovare un terreno di intesa con Cosa Nostra per fare cessare la
sequela delle stragi”.
Fermamente
avversata da Paolo Borsellino, che avrebbe pagato con la vita la sua
scelta di non scendere a patti con la mafia perché avrebbe
significato la negazione stessa della battaglia condotta da sempre
con Giovanni FALCONE, la trattativa si arenò ma poi riprese, dopo
l’arresto di Salvatore Riina, con le stragi di Roma, Milano e
Firenze nelle quali persero la vita dieci persone tra le quali due
bambine.
Le
indagini svolte al fine di risalire ai responsabili occulti di quegli
efferati crimini non hanno dato risultati soddisfacenti perché sono
rimasti ancora avvolti nel mistero i mandanti esterni dei delitti e
delle stragi politico-mafiosi ed è rimasta su di un piano del tutto
teorico, almeno sino ad oggi, la responsabilità politica cui faceva
riferimento la relazione su mafia e politica della Commissione
Antimafia approvata a larga maggioranza, nel 1993, sull’onda
emozionale suscitata dalle stragi del 1992 e 1993.
Ma,
adesso, su quel fosco periodo della vita democratica del nostro
Paese, a distanza di quasi vent’anni, sembra finalmente potersi
fare luce grazie alle propalazioni, ritenute attendibili perché
riscontrate, del collaboratore di giustizia Gaspare SPATUZZA e allo
strenuo ammirevole impegno dei magistrati della DDA di Palermo e
Caltanissetta e degli investigatori che li collaborano.
Dunque,
è un tema, quello del rapporto mafia-politica, più volte
affrontato ma non ancora adeguatamente e completamente sviscerato
soprattutto con riferimento ai rapporti di predominio e di
subalternità che si sono manifestati nello scenario
politico-istituzionale e in relazione al concetto di “contiguità”
in ordine al quale nell’ordinanza-sentenza del c.d. “maxi uno”,
datata 8 novembre 1985, con riferimento ai delitti “politici”, si
legge:
“Nella
requisitoria del P.M. si fa riferimento alla “contiguità” di
determinati ambienti imprenditoriali e politici con Cosa nostra. Ed
indubbiamente questa contiguità sussiste anche se è stata scossa,
ma non definitivamente superata, dai tanti tragici eventi che hanno
posto in luce il vero volto della mafia. Ma qui si parla di omicidi
politici, di omicidi cioè in cui si è realizzata una singolare
convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla
gestione della Cosa pubblica: fatti che non possono non presupporre
tutto un retroterra di segreti ed inquietanti collegamenti, che vanno
ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati
e colpiti se si vuole veramente “voltare pagina”.
Si
è discettato se “cosa nostra”, cioè la mafia siciliana,
persegua propri fini strategico-politici oppure ricorra a alleanze
contingenti od occasionali.
Secondo
la relazione su mafia e politica della Commissione antimafia, redatta
nel 1993, “cosa nostra” : “
ha una propria strategia politica. L’occupazione e il governo del
territorio in concorrenza con le autorità legittime, il possesso di
ingenti risorse finanziarie, la disponibilità di un esercito
clandestino e ben armato, il programma di espansione illimitata,
tutte queste caratteristiche ne fanno una organizzazione che si muove
secondo logiche di potere e di convenienza, senza regole che non
siano quelle della propria tutela e del proprio sviluppo.
La
strategia politica di Cosa nostra non è mutuata da altri, ma è
imposta agli altri con la corruzione e con la violenza”
Questa
radiografia di “ cosa nostra”, risalente al 1993 ma ancora
attualissima, da un senso alla considerazione che la mafia non ha
ideologia ma è sensibile al mutare del quadro politico e,
conseguentemente, al succedersi dei soggetti politici detentori del
potere con i quali, nel corso degli anni, ha stretto saldi patti per
conseguire comuni interessi sino alla fine degli anni ottanta quando
certe aperture del partito di maggioranza verso il partito comunista
e le iniziative di moralizzazione della gestione degli appalti
pubblici, sino ad allora, fertile terreno di manovra della mafia,
hanno incrinato quel rapporto pattizio.
Per
ridurre il partito al governo a più miti consigli, vengono eseguiti
gli omicidi di Michele REINA, segretario regionale della D.C. e di
Piersanti MATTARELLA, Presidente della Regione, esponente di spicco
dello stesso partito.
La
“lezione” viene compresa perché quelle “aperture” vengono
messe nel dimenticatoio e succedono al potere personaggi dotati di
minori doti di iniziative e innovazioni.
Infine,
il rapporto pattizio si rompe definitivamente con l’omicidio di
Salvo LIMA al quale si muoveva l’addebito di non avere rispettato
l’impegno assunto di “ammorbidire” se non paralizzare gli
effetti dirompenti per “cosa nostra” della sentenza della Suprema
Corte di Cassazione del 30 gennaio 1992 che aveva giudizialmente e
definitivamente accertato l’esistenza di “cosa nostra” ed aveva
inflitto pesantissime condanne ai sodali più importanti,
riconosciuti colpevoli di una serie sterminata ed impressionante di
omicidi.
La
spietata esecuzione di Salvo LIMA, esponente di spicco della corrente
andreottiana della D.C., ha posto la parola fine, secondo le
dichiarazioni di collaboratori mafiosi attendibili, a quel rapporto
mafia politica protrattosi per decenni e, conseguentemente, “cosa
nostra” si è messa alla ricerca di nuovi referenti, di nuovi
interlocutori in un quadro politico profondamente mutato per la
presenza di nuove forze politiche sorte dalle ceneri di quelle della
prima Repubblica, travolte anche dalle indagini dell’inchiesta
“mani pulite” condotta dalla magistratura milanese.
E’
ancora rimasto senza risposta, difettando prove certe al riguardo,
l’interrogativo se le stragi del 1992 e 1993 siano state frutto
soltanto di un perverso disegno egemonico di “cosa nostra” ed, in
particolare dei c.d. “corleonesi”, oppure vi abbia confluito,
assicurando la necessaria copertura politica, l’interesse di altri
soggetti in cerca di nuovi assetti di potere.
Una
cosa è certa.
La
reazione dello Stato che, tra l’altro ha inasprito e reso
definitivo il trattamento penitenziario per i più pericolosi “uomini
d’0nore” sottoposti al regime del 41 bis, e le pesanti condanne
inflitte dall’autorità giudiziaria, hanno fatto si che la mafia
abbia abbassato il tiro e sia passata dalla stagione della strategia
stragista a quella della strategia della “immersione”
Ma,
attenzione, non bisogna mai dimenticare che la mafia costituisce un
pericolo non solo quando spara, non solo quando uccide, non solo
quando compie attentati dinamitardi; è un pericolo gravissimo, non
solo per la società siciliana, dal punto di vista politico, sociale,
economico ed imprenditoriale.
Non
esiste una mafia cattiva, quella che si affida ad una strategia
stragista, ed una mafia buona, quella che non compie delitti
eclatanti ed attua una strategia di sommersione.
Perché,
qualunque sia il suo atteggiamento, la mafia corrompe, inquina,
soffoca, infetta le componenti sane del tessuto
socio-economico-imprenditoriale e, come un parassita, si nutre delle
risorse economiche prodotte chiedendo ed esigendo il pizzo, imponendo
partecipazioni di propri adepti negli organi costitutivi delle
imprese, pilotando l’assegnazione degli appalti a ditte “amiche”,
inserendosi nella assegnazioni dei sub-appalti.
Ed
allora, cosa fare, quale strategia adottare per avere definitivamente
la meglio sulla mafia che costituisce da decenni un problema, forse
il problema endemico della nostra Sicilia.
Certamente,
la sola repressione non è sufficiente, anche se ha consentito di
raggiungere risultati storici, ma anche la prevenzione, attuata
attraverso un’opera di bonifica morale, sociale e culturale, ora
mostra la corda ed ha urgente bisogno dell’intensificarsi di un
movimento anti-mafia che, agendo a tutto campo, coinvolga le parti
sane della società civile facendo loro comprendere che convivere con
la mafia non è conveniente (contrariamente a quanto incautamente
affermato dall’ex ministro LUNARDI), che la mafia non produce
sviluppo, quello sviluppo che possa soddisfare i bisogni di tutti,
che la lotta per la democrazia e contro la mafia va sostenuta ad ogni
costo facendo ognuno il proprio dovere quotidiano, nonostante le
avversità, le incomprensioni, gli ostacoli che si frappongono ogni
giorno, perché in questo, nel fare sempre il proprio dovere che
risiede la dignità di un essere umano.
In
un contesto temporale, quale quello attuale, in cui sembra smarrito
il senso profondo dell’interesse generale, del futuro, dello Stato,
della giustizia, in queste condizioni si impone un soprassalto di
fierezza e di dignità.
E’
necessario, dunque, uno sforzo comune da parte di tutte le componenti
della società civile per realizzare un’opera di bonifica morale e
sociale che consenta a noi tutti ma soprattutto ai giovani, che sono
il nostro futuro, di vivere ed operare in una società migliore di
quella in cui ci troviamo e nella quale non saranno costretti a
chiedere per favore quello che spetta loro di diritto e in cui
potranno andare fieri della loro condizione di cittadini e non di
sudditi.
Ma
è, anche, indispensabile che il governo ed il parlamento si facciano
carico di dotare le forze dell’ordine e la magistratura degli
strumenti legislativi, delle risorse umane e materiali indispensabili
per svolgere al meglio il loro compito perché, sia chiaro, la lotta
alle mafie si combatte in Sicilia, Calabria e Campania ma la guerra
si vincerà a Roma.
Il
ventesimo anniversario delle stragi di Capaci e Via D’Amelio è
l’occasione opportuna perché i momenti di celebrazioni che stiamo
vivendo siano anche momenti di riflessione per chiederci se siamo
stati, siamo e saremo capaci di raccogliere l’eredità culturale ed
istituzionale che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ci hanno
lasciato, se siamo stati, siamo e saremo in grado di fare sempre il
nostro dovere, come loro ci hanno insegnato con l’esempio
quotidiano ed il loro sacrificio.
E’
questo il testamento morale di Giovanni e Paolo.
E
tutti noi dobbiamo impegnarci per esserne degni.
Leonardo Guarnotta
Presidente del Tribunale di Palermo
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