domenica 24 maggio 2015

(IN)CAPACI DI DIMENTICARE

                                                               
Al vecchio tribunale davanti la lapide che ricorda l’eccidio di Capaci la tromba del bersagliere della fanfara di Casteldaccia con il suo struggente suono intona le note del silenzio mentre la piccola folla nel rispetto degli eroi tributa il suo minuto di silenzio a coloro che si sono, in questa data, immolati per un Sicilia migliore.
Ore 17,58. Cefalù.
Il suono di queste note delineano il momento in cui il nostro Paese perde uno dei suoi uomini migliori, uno dei più validi nella lotta a cosa nostra. La presenza del procuratore della città cefaludese dott. Alfredo Morvillo cognato di Giovanni Falcone da un significato enfatizzante di questo 23 maggio.
Alle ore 18.30 il  minuscolo teatro dedicato al violinista scomparso Salvatore Cicero  accoglie tra le sue mura i partecipanti al convegno dedicato alla strage di Capaci, tra i suoi affreschi, le poltrone rosse ed un piccolo teatrino dell’opera dei pupi allestito nel palco centrale del piccolo gioiello, Angelo Sicilia cantore di gesti eroici della nostra storia, dà il benvenuto agli ospiti, iniziando il suo spettacolo con le marionette, sulla storia di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, e  per circa 40-45 minuti delizia il pubblico convenuto per questa giornata in memoria di questi morti della strage di Capaci. Uno spettacolo che ricalca fedelmente gli anni delle bombe e della mattanza portata avanti dalla banda corleonese, in combutta con pezzi dei servizi segreti. Presenti a questo momento di memoria organizzato dall’Avv. Maria Vittoria Cerami con l’associazione Co. Tu. Le. Vi. (Contro tutte le violenze), Associazione Cittadinanza per la Magistratura, con la presenza di suoi vari esponenti, l’imprenditrice nel campo della sanità di Castelvetrano Elena Ferraro, l’imprenditore nel campo automobilistico Gianluca Maria Calì, Cinzia Savasta esponente di Scorta civica Palerm, e le istituzioni civili e militari di Cefalù. Il palco con i relatori è composto dalla dottoressa Angela Macaluso che modera il dibattito. L’avv. Cerami, il Procuratore capo di Termini Imerese Alfredo Morvillo, il giudice De Francisci, il sindaco di Cefalù, Placido Rizzotto nipote del sindacalista corleonese ucciso dalla mafia di Luciano Liggio ed infine l’architetto Giovanni Palazzotto vice presidente di Cittadinanza per la Magistratura.
Il dibattito comincia con la presentazione di rito degli invitati e subito il saluto del primo cittadino cefaludese ed il ringraziamento verso tutti i presenti. Inizia subito citando nel suo discorso introduttivo le parole che Paolo Borsellino fece nel suo ultimo discorso pubblico il 25 giugno del 1992 in una affollata assemblea nell’atrio della biblioteca di Casa Professa, ponendo l’accento sulla lotta alla mafia e ricordando i morti di quel 23 maggio del 1992. Conclude sottolineando che il nostro paese ha bisogno di una nuova resistenza e di speranza che deve provenire dalle istituzioni, dalla scuola e dalle famiglie, nel rispetto delle regole per il bene comune.
L’avvocato Maria Vittoria Cerami dell’Ass. Co. Tu. Le. Vi.,  “Ho conosciuto il Dott. Falcone, il quale mi ha lasciato la voglia di non calare mai la testa e di non arrendermi mai”.  Poi la lettura di una lettera di Pippo Giordano, poliziotto che collaborava con Giovanni Falcone, è un enorme regalo per l’avv. Cerami che lei stessa gira al procuratore Morvillo ed è anche una testimonianza sul campo di ciò che ha significato umanamente la perdita di un giudice come Falcone.
“Mi duole non essere con voi a Cefalù. L’ultima volta che ho lavorato nel vostro territorio è stato tantissimi anni fa, quando io e Beppe Montana conducemmo un’attività investigativa in loco. A quel tempo erano vivi il dottor Giovanni Falcone, che seguiva le indagini, il mio Capo Ninni Cassarà, Roberto Antiochia, Natale Mondo e lo stesso Beppe Montana: tutti della mia sezione investigativa della Squadra mobile di Palermo. Oggi non sono con voi, ma sono con gli studenti di San Costanzo, Mondonico e Monteporzio, comuni marchigiani. E, prima di riunirci nella Sala consiliare, la città di San Costanzo, scoprirà una targa in memoria del vice questore Ninni Cassarà. Durante la mia vita ho conosciuto splendide persone con le quali ho condiviso gioie e dolori. Gioie, perchè riuscivano nonostante la brutalità di altri uomini, a rimanere noi stessi con le nostre paure, ma con tanta voglia di vivere: con tanta voglia di cambiare la nostra Palermo. Dolori, perchè seppellire gli “amici” nella totale latitanza del popolo palermitano ci amareggiava: eravamo soli e convinti che per combattere Cosa nostra dovevamo vivere. Invero, per annientarla potevamo anche morire. Giovanni Falcone, per tutti noi rappresentò il volano della Giustizia nobile e pura. Era silente e come ogni buon palermitano parlava con gli occhi: sguardi ammiccanti col sorrisetto sornione celato dai baffetti: era il suo modus operandi, anche quando innanzi aveva dei killer. Falcone, doveva essere ucciso alla Favorita, ancor prima del fallito attentato dell’Addaura. Gli uomini di Cosa nostra avevano localizzato luogo e modalità dell’attentato: le armi pesanti erano pronti, ma ci rinunciarono. Oggi, mentre tu cara Maria Vittoria leggi, è sabato, come ventitré anni fa. Un sabato che segnò per sempre la vita di tanti italiani. Ma il mio cuore è gonfio di rabbia, una rabbia che mi porto dentro sin dall’infanzia. Spesso rifletto, che è stato tutto inutile e l’unica cosa certa sono le lapide sparsi qua e in la nella mia Palermo a testimoniare il fallimento dello Stato. E invece, nonostante le assicurazione di strenue lotte contro la mafia, pavoneggiate dagli inquilini degli ambulacri del potere romano, esercitai con piglio notarile la conta dei morti.
Giovanni Falcone, ha pagato per tutti noi: offeso, vilipeso e oltraggiato da vivo, per poi ritrovare gli giuda piangere sulla sua bara: flotte di amici venuti alla luce dopo essere uscite dagli antri bui dov’erano sedenti. No! L’Italia non meritava di perdere l’Uomo Falcone. Io non sono mai stato un suo amico, non potevo esserlo, fui solo un modesto suo collaboratore. Voglio ricordare due episodi, uno triste e l’altro gioioso. Quello triste, quando ci presentammo dal pentito Francesco Marino Mannoia e Falcone nel stringergli la mano gli disse che non era li per continuare gli interrogatori, ma per porgergli le condoglianze per il vile assassino della mamma, zia e sorella di Mannoia. Quello gioioso, quando io lentissimo con la macchina da scrivere non stavo dietro all’interrogatorio di un pentito e Falcone, rivolgendosi a Ninni Cassarà, disse: “ Ninni pigghia u telefono e chiama i pompieri, Pippo va talmente veloce che fa incendiare la macchina”. Ecco chi era Giovanni Falcone, un uomo che sapeva rimanere Uomo, anche innanzi a spietati killer.
Pippo Giordano.
Il procuratore Alfredo Morvillo stigmatizza sulla importanza dei messaggi che i giovani ricevono, asserendo che l’esempio deve venire dalle famiglie e le scuole che già dedicano delle ore alla cultura della legalità segnano un punto importante in questa battaglia. Bisogna sfruttare il momento in cui parti della società civile mettono a disposizione dell’insegnamento, le esperienze raccolte durante il loro lavoro di sensibilizzazione contro la sub cultura mafiosa.
Giovanni Palazzotto di Cittadinanza per la Magistratura interviene a proposito dei giovani citando una frase emblematica di Paolo Borsellino proprio sui giovani “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.” Poi mostra una tesi di laurea sulla confisca ed il riutilizzo dei beni mafiosi, fatta da un giovane che all’epoca della strage era ancora un bambino, e che nella continuità generazionale si dia atto al fatto che il cittadino dovrebbe essere protagonista del cambiamento.
“Cosa è cambiato dopo 23 anni” è la domanda che la moderatrice dottoressa Macaluso pone al dott. Morvillo, “e se la strage poteva essere evitata”.
“Sulla seconda domanda le risposte possono essere tante, ma a distanza di 23 anni cosa si può dire? Di sicuro c’erano delle conoscenze che potevano mettere in allarme per un attentato. Sono cambiati i sistemi di protezione che innalzano i livelli per alcuni magistrati che stanno nel mirino delle organizzazioni mafiose. Dal 92 è cambiato tanto, con un parziale coinvolgimento della società civile con la scuola e le associazioni, anche se la nostra società non è ancora pronta per un radicale cambiamento. Dovrebbe essere naturale porre dei margini verso tutto ciò che odora di mafia. Di certo è cambiato il sistema repressivo, con l’uso delle professionalità, con la dedizione al lavoro, e con la professionalità delle forze dell’ordine nella repressione al racket.”
“Quattro leggi si possono condividere o meno, qualche nuova legge stenta ad andare avanti ed anche se si è fatto molto, certamente si può fare di più” dice il giudice De Francisci citando il discorso del Presidente della Repubblica come momento a cui porre fiducia. “Il dolore provato in quel tempo per la morte di G. Falcone è stato come una grande lacerazione che ci si porta dietro senza poterlo metabolizzare. La memoria è una cosa in continuo movimento e quando io ricordo cose di quei tempi la memoria mi conduce alla commozione.”
Qui il punto più cruciale del dibattito, le lacrime del dott. De Francisci nel ricordare il suo amico Giovanni Falcone.
“Per gli imprenditori il futuro è fuori dalla Sicilia?” chiede la moderatrice ad Elena Ferraro imprenditrice della sanità nel paese di Matteo Messina Denaro. NO! è la risposta! Comincia a raccontare, seppur in modo breve,  senza esitazione, la sua storia. Ha cercato e trovato il coraggio per ribellarsi alla famiglia di Messina Denaro ed al suo sistema malavitoso. Elena Ferraro punta il dito sulla differenza generazionale che vige nel suo paese di appartenenza e, mentre i giovani delle scuole dove si svolgonoINCONTRI sulla legalità, la recepiscono come una eroina ed un modello da seguire, gente che la conosce, gente che ha negli occhi la rassegnazione, incontrandola per strada le pone sempre la fatidica domanda  “ma chi te lo ha fatto fare?”. Elena Ferraro non vuole sentirsi un’ eroina ma soltanto una persona comune, un’ imprenditrice che vuole solo fare il proprio lavoro.
Gianluca Maria Calì, alla domanda da parte della moderatrice se rifarebbe la scelta che ha fatto, risponde lapidario. “Certo che lo rifarei! Ho soltanto fatto un semplice gesto di normalità. La denuncia che assicura i mafiosi alla giustizia porta a non avere paura di costoro, perché cinque milioni di siciliani non possono essere assoggettati e stare a subire da cinque mila delinquenti. Ognuno faccia nella quotidianità la propria parte per avere risultati certi.
Placido Rizzotto non ha bisogno di presentazioni. Nipote del più famoso zio sindacalista corleonese esordisce dicendo che:  “la lotta sindacale  contro gli agrari siciliani ha significato dare ai contadini la possibilità di vivere e non di campare. Paragona le stragi dei sindacalisti del tempo a quelle dei magistrati; il nesso sta  nel condizionamento dell’economia. La trattativa di cui tanto si parla altro non è che un rinnovo contrattuale di accordi  operati dagli anni quaranta fino ai giorni nostri. Il sindacalista Placido Rizzotto è stato il simbolo delle lotte contadine nel dopo guerra, mentre Falcone e Borsellino rappresentano un momento di riscatto. Oggi Corleone non è più conosciuto come il paese della mafia. I terreni confiscati ai mafiosi ed affidati ai giovani delle cooperative sono ormai una bella realtà. Non lasciamo mai sole le persone che denunciano, perché non sono degli eroi ma soltanto dei comuni imprenditori, e spesso si diventa eroi per la vigliaccheria degli altri.
Ormai il dibattito volge al termine e l’avvocato Maria Vittoria Cerami chiude con le parole di don Pino Puglisi. “Se ognuno di noi fa qualcosa………………….!”. Intanto la sera calava sul mare di Cefalù.
liborio martorana

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